La rinuncia buddista
Venerabile Ajahn Munindo, 2008 Se ci concediamo tutte le volte quello che desideriamo, diventiamo piatti, perdiamo mordente. Nell’attuale…
Venerabile Ajahn Munindo, 2008
Se ci concediamo tutte le volte quello che desideriamo, diventiamo piatti, perdiamo mordente. Nell’attuale cultura dell’abbondanza e del benessere, siamo spesso restii a prendere in considerazione la dinamica della rinuncia. La realtà è che ci piace ottenere quello che vogliamo, ma c’è una parte di noi che sa che accondiscendere a questo progetto di vita non riesce a darci l’appagamento più profondo a cui aspiriamo.
I gesti esteriori di rinuncia sono forme per incoraggiare un lasciar andare interiore. I gesti di per sé sono funzionali, aiutano la coltivazione di una forza del cuore che ci sostiene nel percorso spirituale.
E’ vero che la comunità monastica sceglie di sottolineare questo aspetto dell’insegnamento del Buddha, ne fa uno stile di vita, ma l’addestramento è importante per chiunque sia interessato alla libertà interiore. Fino a pochi anni fa la Chiesa cattolica chiedeva di astenersi dal mangiare carne il venerdì e ancora lo fa durante la Quaresima. Il digiuno incoraggia, a un certo livello, la pratica formale della rinuncia.
Il senso di una vita in cui si rinuncia a certe scelte è che, coltivando una volontà conscia di dire “no” alle cose che potremmo voler avere o fare, cose non veramente necessarie al nostro benessere, impariamo l’arte del lasciar andare.
Se vogliamo comprendere la rinuncia, dobbiamo provarla. Accumulare parole su questa pratica non ci sarà d’aiuto. Ne verifichiamo la validità solo impegnandoci e osservando il risultato.
Possiamo chiederci: “Voglio vivere in accordo agli schemi del desiderio che mi hanno condizionato e limitato? O voglio vivere in una situazione di libertà, mantenendo una consapevolezza non giudicante del qui e ora?”
Dopo che il desiderio è sorto, ci si aprono tre possibilità.
Possiamo gratificarlo, liberandocene così momentaneamente, cosicché il sollievo dall’irritazione del desiderio viene percepito come piacere. Più seguiamo questa possibilità, tuttavia, e più aumentiamo l’impeto del desiderio e della gratificazione. A lungo termine, tendiamo a diventare meno sereni.
L’altra possibilità è reprimere il desiderio, fingere di non volere alcunché, che equivale a imporgli un cieco giudizio.
La terza possibilità è scegliere di tenere il desiderio nella consapevolezza. Possiamo tenerlo. Come risultato, accade qualcosa di meraviglioso. L’energia sperimentata come desiderio ritorna a essere energia grezza. Quell’energia può veramente motivare la pratica e condurci a una felicità molto più grande di quella associata con la gratificazione dei desideri sensoriali.
Dunque, la frustrazione del desiderio non è una cosa per pochi individui bizzarri o pervertiti che vivono in un monastero perché non sanno godersi la vita. La rinuncia è in realtà un modo di imparare a collegarci col nostro profondo pozzo interiore di energia.